STUDIO CLINICO DI PSICOTERAPIA E SESSUOLOGIA
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Studio Clinico di Psicoterapia Analitica e Sessuologia telefono n° 0686294663 iscrizione Albo Professionale n°4869 abilitato alla Psicoterapia codice Ateco 86.90.30
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Transessualismo e identità di Genere, una lettura del Film " Un anno con 13 lune" di Fassbinder.

 

Amare tra le Bestie

 

articolo del Dottor Danilo Moncada Zarbo, Psicanalista – Di Roma Magazine, anno 2 (2014), numero 1, pagine 20, 21 e 22, supplemento della testata online DI-ROMA.COM

 

Quando Il Cinemante, rivista di critica cinematografica, e poi il quotidiano DI ROMA mi chiesero una lettura del film “Un anno con tredici lune”, ho ripensato a quante volte nel corso della mia professione ho incontrato “Erwin” o “Elvira” o come si dice “Armin Meier”...

Mi sono chiesto, dunque, se rileggere ancora una volta la dinamica del suicidio o se invece osservare quanto più spesso portato sul lettino o sulla poltrona di uno psicologo: “io rinuncio a me così potrò essere amato”.

Fatua illusione o vizio di forma nell’esistere, è un caso frequente.

La rinuncia a esistere per completare il presunto desiderio o aspettativa dell’altro, si esprime, a volte, nella negazione nevrotica di “cosa io sono”.

“Io sono è vero anche in complemento a Te, ma non in forma esclusivamente dipendente da Te”.

È questo il forte impatto nell’utente, ad esempio durante il lavoro con le coppie, quando si parla di Due in coppia e non di una coppia, due individui autonomi e indipendenti nel rapporto, che si ritrovano (in un percorso a volte parallelo a volte divergente) insieme.

La storia di Erwin mi ricorda, allora, tante donne che hanno rinunciato ad esistere. Rinunciatarie per essere prima figlie, poi spose o simili, poi madri, e che diventate nonne, vedove, si ritrovano con un corpo che reclama ascolto e un sè (anima, psiche o quant’altro di dinamicamente interagente tra i due descrittori) che implora passione.

Caro Erwin o cara Elvira, difficile amare tra le bestie.

Difficile vivere col peso di dover decidere autonomamente “cosa per me è ingiusto o giusto”; non hai un padre o una madre che hai dotato del coraggio di farlo per te, che ti acquieti.

Difficile dire se ciò che provi nel tuo amplesso è piacere, perchè non ti sei ascoltata/o e fatta/o sentire, o non hai potuto dire all’altro: “ascolta, questo mi piace”.

Paura forse dell’abbandono da un punto di vista, evitamento del confronto da un altro, mancata consapevolezza da un altro ancora.

E poi bisogno inespresso di accoglienza e mancato ascolto della propria capacità di strategia, di sostegno, forse l’uno o l’altro, sicuramente tutti questi fattori insieme.

Sofferenza di chi si trova a ripercorrere e a replicare gli schemi dell’infanzia della educazione che ha perduto il significato dei latini di EDUCERE, trarre fuori, per quello più comodo di In ducere, metto dentro.

Potrei chiamare Erwin con cento altri nomi di pazienti che sotto il peso di una educazione retriva e bigotta non hanno saputo o potuto crearsi dei sistemi di filtraggio o sperimentare una posizione nuova, un punto di vista e osservazione nuovo.

Potrei chiamarli Roberto, di trent’anni, che ha rinunciato alla propria sessualità dai tredici, come Elvira-Erwin nei suoi continui sforzi di trovare l’amore, così solo e disperato.

Ti ricordi Roberto, la tua scuola e le sue regole, la tua famiglia e le sue regole, il paese e le sue regole e il tuo tentativo di scoprire te stesso e gli altri a prescindere da tutte queste regole?

Come in “In einem Jahr mit 13 monden”, la madre non rinuncia alle sue regole e forme per rendenrti libero di amare ed essere amato.

Non a caso, credo, anche la madre reale di Fassbinder compare nel film, nel flashback dell’infanzia e del convento.

Queste madri o padri così belli e crudeli, così brutti e dolcissimi, così umani.

Ti ricordi la tua scelta di amare tra le bestie e il venire scoperto da tua madre, tuo padre, tua sorella, senza vestiti e sorridente con l’amante nudo che scappa perchè anche per lui ci sono le regole.

La tua solitudine la mostri a modo tuo.

La mostri nel tuo desiderare e spaventarti del tuo desiderio al punto da dire “io non provo nulla: dottore cosa vuol dire emozione”.

Il tuo non ricordare, Roberto, nulla del corpo che cresceva se non il divieto e questo grande bisogno di essere nella sessualità, rubato nelle docce della caserma tre anni fa.

E poi ancora colpa, pesante colpa di chi ama tra le bestie, che si squartano si mangiano si vomitano e non si vedono.

I pazienti si vedono molto invece, hanno amato sinceramente e si sono bruciati d’amore, amano tutti anche le bestie in questo disperato bisogno di darsi senza difese e ricevere senza paure.

Ah certo, mi vieni in mente Rosalba, con il tuo meraviglioso bosco e la tua fonte notturna che hai ricreato tante volte e tante altre me l’hai mostrato.

Non aveva il bosco le zie titaniche, enormi e aguzzine, che delegate ti costringevano alle mani fuori le lenzuola tra i loro corpi pesanti e vecchi.

I rituali del legarti per non lasciare che il corpo crescesse con le sue sensazioni, con il tuo scoprirlo.

Con tutti i tuoi morti, così tanto amati. Questo tuo bisogno di dirmi, “perchè per uscire dal dolore, devo attraversarlo”, con i tuoi amori scappati e il tuo tenerli tutti in petto stretti. Caldi, vivi.

Amarli tutti, squartata, mangiata, vomitata, ma io mi sento amata se ti dico amore, un giorno capirai.

Lavorare su questo tipo di difficoltà, fino ai limiti della patologia e oltre, impegna il setting terapeutico su più fronti. Il lavoro sulla consapevolezza, nel cosa fai, cosa senti, cosa vuoi, cosa ti aspetti, che cosa eviti, implica un impegno su più livelli, dalla consapevolezza del comportamento al contatto con le emozioni e le sensazioni, dall’intenzionalità al contatto tra sostegno e autosostegno e il contatto con i propri fantasmi “chi e cosa evito”.

Ciascuna delle persone di cui ho parlato a grandi linee ha evitato il contatto con un modello di relazione che in passato ha causato dolore, sofferenza profonda. Un modello di rapporto tra un bambino che protesta la propria indipendenza come diritto e una famiglia centrata sul proprio bisogno e castrante, una famiglia non anaffettiva ma eccessivamente sicura del proprio ruolo e disposta a tutto per difendere lo status.

Il lavoro maggiore è spesso incentrato nel rendere consapevole ciò che non è.

Passare da un concetto di sostegno ambientale in cui il paziente affronta il suo viaggio con un sostegno affidato allo psicologo, come Dante incontra Virgilio per attraversare il suo inferno.

È un processo riparativo che riconfigura qualcosa che non ha funzionato.

Un viaggio tra incoraggiamento e frustrazione che offra alla persona una nuova prospettiva, da più punti di vista, sul presente.

È una realtà nuova perchè pluriosservata, se si può così dire, da un’unica persona.

Mi piacerebbe qui introdurre il concetto di realtà come costruzione del reale, ma forse si avrà più tempo un’altra volta.

Consentitemi, una finestra sulla mia emozione, come diceva James Whale nel suo Frankestein “i mostri? Eccoli qua”.

 

 

 

 

 

 

 

Il modo che in cui i genitori trattano i propri figli è spesso il risultato di come essi stessi o solo uno di loro furono trattati da bambini.
Modelli familiari sempre così difficili da elaborare perché richiedono un doloroso atto di accusa verso chi amiamo e dichiararne spesso il fallimento. 
La violenza verbale e fisica vissuta in famiglia spesso diventa nei bambini un modello di comportamento aggressivo. L’esperienza descritta in questa vignetta ha un terribile elemento in più. Per ogni giocattolo che il bambino prenderà a
martellate distruggendolo ci sarà sempre un oggetto affettivo interno che andrà in pezzi. Un padre o una madre che perdono il controllo saranno martellate alla struttura della personalità del bambino, ogni oggetto rotto con rabbia fuori corrisponde ad un pezzo del mondo interno del bambino che va in frantumi. 
La perdita delle illusioni infantili, per la incapacità dei genitori alle prese con una catena di rabbia e frustrazione, ha un peso della strutturazione del futuro adulto. Il padre o la madre, le madri o i padri sono coloro che forniscono il nome e il denominatore della realtà. Esseri superiori cui affidarsi perché certi e sicuri, la perdita di questa fiducia è generatore esso stesso di vuoto e autosfiducia. 
Personalmente se osservo una di queste catene intervengo sempre, non lasciamo i bambini soli.

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